Caponata o zuppa di custrum?

 

La Caponata, il tipico piatto della costiera amalfitana, è una ricetta che oltre ad essere squisita è semplice e veloce, perfetta per la necessità di un pasto veloce. 

E’ preparata con il famoso pane biscottato agerolese o “vascuotto”. Quest’ultimo viene ammollato in acqua per essere reidratato e ammorbidito e poi condito alla maniera di un’insalata di pane, con olio sale e qualche pomodorino del piennolo. Poi, a seconda dei gusti, le aggiunte sono innumerevoli e fantasiose.

 

Eppure, la Caponata originale, o meglio la zuppa di “custrum” era null’altro che biscotto di grano e farina d’orzo, condita con pesce salato, capperi,olive, alloro e olio. 

Nella versione marinara, invece, era realizzata con brodo di pesce o di mitilli, pepato e con l’aggiunta di erbe aromatiche.

 

Ma da dove deriva l’etimologia di tale termine? 

La parola caupona, dal latino, indicava una vecchia “osteria”, ovvero un locale dell’Antica Roma dove si era soliti mangiare piatti veloci e nutrienti, ma al contempo in cospicue porzioni, senza spendere tanto.  Il tutto era di solito accompagnato da un buon bicchiere di vino. 

 

Il “caupo” era l’oste dell’affolata “caupona viaria”, la strada delle osterie.

 

La Caponata napoletana non è da confondere con quella siciliana, preparata a base di verdure e salsa di pomodoro. Tuttavia anche quella della costiera amalfitana ha una personalità tutta sua, a dispetto di quella napoletana preparata per lo più con la fresella. 

Di fatti, una figura popolare a Napoli era quella del “tarallaro” che le vendeva per le strade di Napoli, trasportandole dentro una cesta.

 

Il pane biscottato agerolese che ancora oggi si usa in costiera per la preparazione della nostra amata Caponata, nasce per due motivi principali. 

Il bis-cotto, così detto proprio perchè cotto due volte, aveva una particolarità rilevante: una volta intaccato il pane e dorato al punto giusto, veniva distaccato e rimesso a giacere nel forno a legna per l’intera nottata col solo calore residuo, di modo da “bis-cottarsi” e dunque disidratarsi completamente. 

 

Ecco che questo pane poteva in tal maniera essere conservato per periodi di tempo illimitato. Pertanto, riducevano la frequenza di panificazione in famiglia (un vantaggio di tempo dati i ritmi serrati nell’orto), producendo una gran quantità di biscotto una o due volte al mese utilizzando, al posto dell’oggi inflazionato lievito di birra, il cosiddetto “criscito”, ovvero il lievito madre che le famiglie dell’epoca erano solite passarsi tra di loro nel vicinato.  In tal modo adempivano al compito di utilità del lievito madre nella panificazione e al contempo riuscivano, senza troppa fatica, a mantenerlo vivo. 

 

Tuttavia secondo alcune fonti, ancor prima il vascuotto era il cibo perfetto durante il periodo delle repubbliche marinare, ovvero quando da Amalfi i marinai si imbarcavano sulle navi per gli scambi commerciali nel mar Tirreno. 

I marinai lo bagnavano a giusta ragione con l’acqua salata. Era perfetta scorta da cambusa. 

A conferma di questa tesi alcune notizie storiche che risalgono ai tempi di Carlo II d’Angiò, dove si parla di rifornire con questi “biscotti” le armate di mare e di terra. 

Questi documenti sono tratti dalle “Memorie storico-diplomatiche dell’antica città e Ducato di Amalfi”, di Matteo Camera, 1881. 

 

Ne citerò qui appena uno:

(1) “Mandatum quod mittatur farina apud Amalfiam, ubi conficienda est panatica pro decem galeis celeriter in anno 1273”. 

 

Amalfi è la protagonista dei nostri documenti essendo, tra le altre cose, la città dove le materie prime venivano importate. Tuttavia Agerola è la zona dove avveniva la panificazione vera e propria, probabilmente considerando che fosse una città montana dalla grande quantità produttiva di legname. 

 

L’originale biscotto agerolese, che tuttavia oggi rischia di essere dimenticato, è quello a cui viene mescolata, insieme a quella integrale, la farina di segale e che per questo veniva chiamato “o’ Jurmano”. 

 

Non a caso col nome Jurmano viene indicata la segale. Nel nostro dialetto “jurmano” significa “germanico” e ciò fa intendere che questo nome sia dovuto al fatto che, durante il Medioevo, le dominazioni nord-europee abbiano introdotto questo cereale nel sud Italia. 

 

In ultimo mi piace lasciare una chicca linguistica rubata a Boccaccio. il nostro amato autore, quale frequentatore della città di Napoli, potrebbe avere avuto contatti anche con le nostre flotte amalfitane e avere, forse in conseguenza di ciò, introdotto nel suo celebre Decamerone un detto che ci riguarda da vicino (tratto da La caccia di Diana e le Rime, 1914):

 

     Io ò messo in galea senza biscotto

     L’ingrato vulgo, et senza alcun piloto

     Lasciato l’ò in mar a lui non noto,

     Benché sen creda esser maestro et dotto:

     Onde el di su spero veder di sotto

     Del debol legno et di sanità voto;

     Né avverrà, perch’ei sappia di nuoto,

 

     Che non rimanga lì doglioso et rotto.

 

Il motto proverbiale “mettere in galea senza biscotto” vuol dire “impegnare uno ad un’impresa senza i debiti provvedimenti e i modi da condurla a fine”. 

Era un’espressione a quanto pare molto in voga nel Medioevo, utilizzata per intendere le situazioni in cui veniva messo qualcuno nei guai o in seria difficoltà. 

 

Adesso, probabilmente,mentre degusterete un bel piatto di caponata, saprete che quello che avete davanti è ben più di un semplice pezzo di pane. 

 

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